di Paolo Del Debbio
Perché proprio oggi, in questa epoca della nostra storia, è importante ritornare sul contributo dello “psicologo dei lager”, il neurologo, psichiatra e filosofo viennese
Viktor Frankl (1905-1997)? La questione ha una parola: si chiama senso della vita. Occorre tornare a Viktor Frankl, per il semplicissimo motivo che ciò di cui abbisogna
il nostro mondo è esattamente il senso della vita. Dispersi, frastagliati, senza radici, la generazione di internet perché dovrebbe interrogarsi sul senso
se tutto si gioca in superficie? Il senso chiede di immergersi e, attraverso l’immersione, andare oltre. Anche perché quando arrivano quelle che Karl Jaspers
chiamava le “situazioni-limite” della vita: la sofferenza, la morte, le asperità forti della vita, la mancanza di senso si fa viva anche se non se ne conosce il nome,
anche se – genericamente-, la chiamiamo depressione. Insomma, nell’epoca che più ha smarrito il senso, questo è ciò di cui meno si parla.
E arriva la chimica che può aiutare a liberare uno spazio nell’anima, nella psiche, ma una volta liberato – come insegnava Frankl – rimane vuoto.
Vuoto di senso. “Il medico -scrive Frankl – deve avere coscienza del bisogno che l’uomo ha di dare un significato alla propria vita.
Ma alla nostra epoca, epoca di dubbio sul senso della vita, è più che mai necessario che egli resti ben cosciente – ed aiuti il suo paziente
a prendere a sua volta coscienza di ciò – che la vita non cessa di avere un significato, neppure in mezzo alle sofferenze, anzi è proprio la sofferenza
ad offrire possibilità di realizzare il significato più elevato, il valore più alto possibile.” Frankl, prima di scrivere queste cose, era passato
da quattro campi di concentramento, tra i quali Auschwitz e Dachau. Aveva, cioè, sperimentato una delle peggiori esperienze nelle quali si era manifestato
il mysterium iniquitatis nel XX secolo. Ci aveva vissuto in mezzo e da lì aveva imparato che senza il senso la vita
non ha un orizzonte di possibilità, ma solo di angoscia.