L’articolo 32 della nostra Costituzione contiene due principi importanti, che in alcuni casi sembrerebbero essere in conflitto: il diritto alla cura e il diritto alla libertà di cura: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”
Il conflitto sembrerebbe crearsi per quelle persone affette da disturbi psichici che, proprio a causa della sintomatologia, non sono in grado di aderire alle terapie, in modi diversi: rifiutano la diagnosi per paura o per lo stigma che ne consegue, oppure non sono consapevoli delle conseguenze della loro patologia, o comunque non riescono a mantenere la costanza che servirebbe nella cura (terapia farmacologica o psicoterapia).
In realtà il conflitto è solo apparente, e purtroppo a volte è utilizzato come alibi da quei Servizi di Salute Mentale che non interpretano correttamente lo spirito della riforma Basaglia: chiusi nei loro ospedali o ambulatori, si limitano a restare in attesa che il paziente si presenti di sua iniziativa presso la loro struttura, negli orari e nei modi prestabiliti, e segua le loro disposizioni con costanza e determinazione. Se il paziente non lo fa, si assume che sia perché è “libero di decidere”. E quindi viene abbandonato a se stesso.
Poiché noi crediamo che la difficoltà di adesione alla cura debba essere considerata non un impedimento al trattamento bensì parte della patologia, riteniamo che il rapporto terapeutico non debba essere offerto solo ai pazienti che spontaneamente lo chiedono e vi aderiscono con continuità, bensì che i CSM debbano non solo proporlo a tutti coloro che ne hanno bisogno, ma anche sostenerlo attivamente, se serve anche negoziandolo, con tenace impegno e fantasia nel ridefinire continuamente tempi, luoghi e modalità dell’intervento.
Citando il Prof. Roberto Catanesi, ordinario di Medicina Legale presso il DIM della Scuola di Medicina e Chirurgia dell’Università di Bari: «Il consenso "esplicito ed informato", come lo definisce all’art. 35 la nuova versione del Codice di Deontologia Medica, per alcuni pazienti in psichiatria è utopico. Quello con cui ci si confronta di solito è un oscillare fra rifiuto ed assenso alle cure; per questi pazienti, il consenso non è punto di partenza bensì di arrivo di una proficua attività terapeutica.»
Con questo approccio, i due diritti costituzionali non sono affatto in conflitto e possono essere garantiti a tutti, indipendentemente dal punto in cui la persona si trova nel suo processo di recovery.
Nel nostro Paese oggi questo avviene solo in alcune, limitate aree: le buone prassi scaturiscono da particolari eredità culturali (Trieste, Modena...), oppure da sensibilità ed etica personali del singolo operatore. Non è la legge a guidare la presa in carico dei pazienti non compliant, quindi non è un’opportunità offerta a tutti.
In Italia, non è un diritto per tutti, e noi lottiamo perché lo divenga.
Siamo una rete, su tutta l'Italia, di oltre 50 famiglie di persone affette da Disturbo Borderline di Personalità in una forma particolarmente pesante, in grado di compromettere totalmente la vita propria e delle famiglie, e che può essere chiamata "a basso funzionamento": non riescono a studiare o lavorare, commettono reati d'impulso (risse, aggressioni, danneggiamenti...), non sono in grado di gestire una casa, né i propri documenti o le proprie cose (chiavi di casa, occhiali,...), non vanno dal medico o dal dentista se ne hanno bisogno, non riescono a prendere la patente, né a rispettare un appuntamento qualsiasi, hanno difficoltà a leggere e a comprendere un testo di qualche pagina,... anche l'abuso di sostanze è molto frequente, come tentativo disfunzionale di automedicazione. Anche quando sono intercettati dalle UONPIA nel percorso di crescita, questi ragazzi giungono molto tardivamente ad una diagnosi, perchè inizialmente i loro sintomi vengono inquadrati in generici disordini comportamentali. Ma soprattutto, una volta arrivati alla maggiore età, questi pazienti "a basso funzionamento" vengono presi in carico dai Servizi con riluttanza e spesso in modo inadeguato, perchè rappresentano casi complessi e hanno difficoltà di adesione alla cura, esattamente come hanno difficoltà a condurre il resto della propria vita (paradossalmente, lo Stato stesso lo riconosce a molti di loro, tramite l'invalidità civile). C'è spesso anche un rimpallo di responsabilità tra servizi diversi: CPS, SERD, SPDC, Psichiatria Forense, presidi psichiatrici in carcere, comunità terapeutiche...
Per i reati che frequentemente queste persone commettono a causa del loro disturbo, spesso finisce per essere delegata al carcere la gestione di situazioni cliniche complesse, che i Servizi di Salute Mentale per anni non hanno affrontato con mezzi ed interventi efficaci; e arriviamo così a situazioni limite, come la morte nel carcere milanese di San Vittore del figlio di una famiglia della nostra rete, a 21 anni.
Può essere considerato un problema di nicchia, ma coinvolge in modo devastante un numero di famiglie molto più grande di quanto si possa credere.
Facciamo parte dell’associazione Famiglie in Rete, coordinamento di associazioni di familiari e utenti per la Salute Mentale, costituita con lo scopo di promuovere e tutelare i diritti delle persone con patologie psichiatriche e loro famiglie, che raccoglie realtà associative e soci singoli in tutto il Paese.
Il nome del nostro gruppo tematico - “Ci siamo anche noi” - deriva dal nostro bisogno di visibilità; ci sentiamo soli, ignorati o a volte addirittura colpevolizzati, da tutti: persone comuni, media, istituzioni e molto spesso (salvo qualche lodevole caso) anche dai Servizi di Salute Mentale.
Chi desidera mettersi in contatto con noi, può scrivere a famiglieinrete2021@gmail.com