“Quando incominciò ad albeggiare non mi importava più di niente”. Quella sensazione del Racconto di un naufrago, romanzo-memoir breve pressoché sconosciuto
di Gabriel García Márquez, era la stessa che avevo provato quella mattina che Ale aveva preso il volo. Non sentire, non guardare, non annusare, non toccare,
non gustare una persona amata – per giorni, per mesi, per anni, per sempre - è come perdere il senso di sé. Perdere un senso basta per perdere il senso comune
che aveva cullato un’esistenza, in cui tutti i sensi erano chiari e netti al punto di poterli dilatare a piacimento.
E a quel punto il tempo si dilata. Senso, sensi di colpa infiniti per non aver delibato quelle gourmandise congelate dal freezer dell’abitudine che tutto rende trasparente
e insipido nell’abbuffata quotidiana.
Giorno dopo giorno l’assenza cancella il senso precedente alla perdita, dilaga e sconfina in una flottiglia di pensieri senza rotta che ci privano, ora, della mappa precedente.
Missionari senza missione. E nelle tenebre che accecano chi resta, l’unica ragione di vita diventa la speranza insensata che chi non c’è più
abbia trovato comunque un senso a una vita che non aveva più senso.
Come se la volontà estrema di senso possa trascendere la nostra misera esistenza umana.
Oppure - al contrario - una laica, laida certezza: non puoi vincere contro il banco. Se ti siedi al tavolo dell’energia dell’esistenza
puoi vincere solo se sparigli, se ti diverti, se giochi, e se smetti di giocare prima di perdere tutto, magari con spocchia e orgoglio.
Forse la cosa ridicola è cercare sempre lo stesso senso alle cose che accadono, perché quel senso che ci aveva accompagnato fino a quel cortocircuito
era un piccolo senso, limitato, vecchio, reiterato. Un po’ come la storia che si ripete, quasi sempre uguale, facendo naufragare puntualmente sogni,
desideri, ideali, certezze, credo, valori, morali. Giriamo come una trottola a quasi 30 km al secondo a testa in giù: forse per questo basta un istante di distrazione
per provare un senso di vertigine sino a precipitare.
Il tempo d’altronde non esiste se non per dare un senso a un passato, a un presente, a un futuro che non esistono. Se non nei buchi neri della nostra mente e della materia.
Forse basterebbe riaprire gli occhi, sturare le orecchie e porgere ascolto ai gorgoglii della nostra anima, i brontolii sordi della pancia,
come una levatrice che aiuta a partorire un nuovo “sé”, una verità relativa ma piena, atomizzata e non globalizzata, sconosciuta agli algoritmi,
sfuggente alle app, extracorporea e non dipendente dalla chimica o dai glu-glu o dai bla-bla.
Sentire e ritrovare i nostri pensieri più impensabili e reconditi sepolti dalle sabbie mobili della perdita, della sconfitta, della fine.
Anziché, come diceva Ale, nasconderli sotto al tappeto, polverizzandoli e polverizzandoci.
“Non ho fatto nessuno sforzo per essere un eroe. Tutti gli sforzi che ho fatto son stati per salvarmi”. (Gabriel García Márquez)