Quelli che restano

Perché, se abbastanza persone lo vorranno, l’Associazione Amici di salvataggio vivrà? Per far sì che anche il dolore legato alla sopravvivenza diventi utile. La decisione di fondare questa onlus nata da sette amici, questa scommessa di accendere una lanterna nell’oscurità del più indicibile dei dolori, è legata alla capacità di dare un significato alla vita, sfida che si manifesta come non mai proprio nelle circostanze estreme dell’esistenza. Affinché, nonostante tutto, Alessandra e la sua voglia di aiutare gli altri possano continuare a vivere.

Temo una cosa sola: di non essere degno del mio tormento
Fëdor Dostoevskij
Temo una cosa sola - 4 contributi
  • Russula / rispondendo a Brunita
    Sabato 31 luglio 2021

    Cara Brunita, io combatto da più di un anno per avere un sostegno a Milano. Oltre alla psicoterapia sentivo il bisogno di un gruppo di sostegno per sopravvissuti, ma ho sempre trovato solo muri e porte chiuse, anche da parte di chi, a parole, sostiene di prendersi cura di persone in lutto, oppure persone incompetenti, non qualificate e prive di empatia. È scoraggiante, pensando a tutti i sopravvissuti abbandonati a se stessi.

  • Istrighedda
    Giovedì 15 luglio 2021

    Siamo dentro la seconda estate dell’era Covid, a me risulta dal mio modesto osservatorio che ci sia un incremento dei suicidi e un malessere psichico di cui non si parla. Nel dibattito pubblico il tema è completamente assente, si parla talvolta dell’aumento dei suicidi negli adolescenti, ma se ne parla comunque poco e non si allarga ad altre fasce d’età che mi pare ne siano purtroppo coinvolte. Il tema rimane un tabù e questo non credo faccia per niente bene alla salute pubblica!

  • Russula
    Mercoledì 24 marzo 2021

    A gennaio 2020 il mio unico figlio ha deciso di andarsene. Per me sarebbe importante la presenza di gruppi di sostegno per sopravvissuti a Milano, non normali gruppi AMA ma gruppi strutturati e guidati da un professionista. Milano ne è carente, e mi sorprende che sia così. Sarebbe bello e utile se venisse promossa la creazione di tali gruppi, già presenti in molte altre zone d’Italia.

  • Gli Amici di salvataggio / rispondendo a Una mamma
    Lunedì 22 febbraio 2021

    Cara mamma, (...) parli di un gesto premeditato, in qualche modo non evitabile. Ma la depressione maggiore annulla la volontà di vivere, il depresso non è in sé, è soggetto a raptus ma in lui non può esserci nulla di veramente premeditato: per questo la corretta valutazione di chi è vicino ai malati, dei medici curanti e dalle protezioni che troppo spesso latitano è una questione di vita o di morte. Qui si gioca la nostra battaglia contro i tabù, anche se, certo, ogni caso, ogni vita [...] Leggi tutto......fa storia a sé.

Chi sono i Survivors

“Temo una cosa sola: di non essere degno del mio tormento” ha scritto Dostoevskij. Questa è la missione del survivor, del sopravvissuto, che in sé soffre uno stigma ma possiede anche un privilegio: poter raccontare l’indicibile, vedere un perché nel più atroce dei come, trovare le ragioni di essere all’altezza del proprio tormento. Possiamo associare il suicidio a un grido di dolore disperato la cui eco resta per sempre nella mente di chi lo ha udito. È il destino di chi resta: rimanere in bilico tra grida e silenzi. In psichiatria si intende per survivor il sopravvissuto al gesto estremo di un proprio caro nonostante tutti gli sforzi fatti perché ciò non accadesse Secondo lo psichiatra George Howe Colt, per ogni suicidio si possono calcolare dai 6 ai 10 survivors: padri, madri, gli, mogli, mariti, amici intimi che si trovano a sperimentare un evento traumatico enorme, candidati a sopportate uno stress che avrà pesanti conseguenze su ogni fronte della vita.

A proposito di survivors, vi invitiamo a leggere l’inchiesta di Maddalena Oliva pubblicata sul Fatto Quotidiano del 6 ottobre 2019.

Lei era Marta e ha scelto di morire impiccandosi”. Inizia così, per me, la storia di Marta. Scrollando in velocità l’home page del sito del FattoQuotidiano.it. La foto messa a corredo –una ragazza mora, sorridente – aveva fatto il resto. Clic. “Lei era Marta, mia figlia. Il 15 aprile 2019 all’età di 40 anni ha scelto di morire impiccandosi. L’ha fatto in casa sua a Roma. Ci ha lasciato uno scritto sul tavolo della cucina, due mozziconi di sigaretta nel posacenere, il telefono in modalità aerea, una bottiglia di vodka e troppo dolore”. Quella che stavo leggendo era la lettera che la madre di Marta, C., aveva inviato alla sezione “Fatto da Voi” del nostro sito. “Il primo grido di dolore, pur contenuto e dignitoso – mi confesserà lei, poi, durante il nostro primo scambio – al di fuori dello spazio sacro della mia famiglia”. [continua]

Sopravvissuti. Si calcola che per ogni suicidio ci siano fino a dieci persone, tra familiari e amici, che hanno vissuto un’esperienza pari a un campo di concentramento
SUICIDI NEL MONDO, OGNI ANNO
800.000
Il tasso di mortalità è, in media, 10,5 ogni 100mila abitanti. Per l’Oms, la maggior parte dei suicidi (il 79%) avviene in Paesi a basso e medio reddito. Per lo più, usando pesticidi.
UNO OGNI 40 SECONDI
40
Ogni 40 secondi c’è una persona nel mondo che si toglie la vita (e i tentativi non riusciti si calcola siano 10 volte tanto). Il suicidio è la seconda causa di morte tra i giovani.
SUICIDI IN ITALIA, OGNI ANNO
3.935
Tasso di mortalità per suicidio nel nostro Paese è 7,1 ogni 100 mila abitanti. È più frequente al Centro Nord, riguarda 8 casi su 10 uomini, dai 45 anni in su, istruzione media.

Storie di sopravvivenza

“Nessuno conosce le ragioni di un suicidio, tantomeno chi si è suicidato” ha scritto Primo Levi a proposito del suicidio di Jean Améry. Altrettanto insondabile è il dolore di chi resta, tanto più per chi resta, perché nel mistero del suicidio si nasconde il mistero stesso dell’esistenza. “I superstiti si voltano indietro e scorgono presagi, messaggi di cui non si sono accorti”, ha scritto Joan Didion. E non smetteranno di cercarli anche guardando avanti, come si cerca un senso a questa vita anche quando questa vita non sembra averlo. Se credono, quei messaggi e quei presagi i survivors potranno cercarli anche in questa stanza raccontando la loro esperienza personale.

Nessuno conosce le ragioni di un suicidio, tantomeno chi si è suicidato
Primo Levi
Nessuno sa le ragioni di un suicidio - 2 contributi
  • Gli Amici di salvataggio / rispondendo a Tere
    Giovedì 31 dicembre 2020

    Cara amica di salvataggio, grazie due volte Il primo grazie per averci scritto: il sito prende senso dal desiderio e dal coraggio di confrontarsi su questi temi considerati ancora dei tabù. L’appello è rivolto a tutti: terapeuti, pazienti, vittime, sopravvissuti e ogni persona sensibile. Il nostro sito o vivrà così, o non vivrà. Il secondo grazie per aver posto un tema fondamentale come la scelta del terapeuta. La compatibilità tra paziente e psichiatra o psicologo è decisiva. Una [...] Leggi tutto......scelta sbagliata può rivelarsi irrimediabile, ma è estremamente difficile orientarsi. Bisogna saperlo. Riuscire a comunicare e a scambiare esperienze è un primo passo per muoversi nella selva oscura dei disturbi della mente, e delle sue cure.

  • Gli Amici di salvataggio / rispondendo a Una mamma
    Lunedì 30 novembre 2020

    Grazie di averci scritto e di darci la prova che questo sito può aiutare "quelli che restano" a uscire da se stessi, e dal proprio solitario interrogarsi. Un modo per scambiare e condividere strategie di sopravvivenza insieme agli altri. Certi dolori non se ne vanno, restano, questo scoprono i survivors; ma si può imparare a conviverci.

UNA “COSPIRAZIONE DEL SILENZIO”
La luce oltre la siepe

Di Patrizia Borrelli - Psicologa Psicoterapeuta Sistemico Relazionale

Li chiamano survivors, in italiano sopravvissuti, quelli che restano dopo la morte per suicidio di un proprio caro, amico o conoscente. Una morte, che non tutti comprendono. Ancora oggi, per molti, un argomento tabù e per il quale il sopravvissuto, non di rado si sente incompreso e marchiato a fuoco. Sono molti i fattori che incidono sulle reazioni e sulle modalità di pensiero, che vengono sperimentate dalla persona in lutto. Ciascun individuo infatti fa, della perdita, un’esperienza soggettiva, influenzata non poco dal contesto. Basti pensare che i componenti di una stessa famiglia, attraversata dall’esperienza del suicidio da parte di un proprio caro, vanno incontro a reazioni diverse, a seconda della propria capacità di affrontare i momenti critici, come la differenziazione, la separazione, la perdita e la sofferenza. Una competenza appresa nel nucleo familiare, a seconda delle esperienze fatte al suo interno, del suo stile, ma condizionata anche dal contesto sociale.

Nella nostra società esiste ancora oggi nei confronti del suicidio, un forte pregiudizio, che non fa altro che alimentare una “cospirazione del silenzio”, una negazione che affatica ancora di più l’elaborazione della perdita da parte di chi rimane, costringendolo alla solitudine. Il suicidio, infatti, nonostante sia una delle dieci principali cause di decesso nei paesi industrializzati, è ancora un concetto quasi innominabile, causa di stigma per i sopravvissuti, che in molti casi si trovano a sentirsi in dovere di tenere per sé quella, che appare come una “vergogna sociale”. In obbligo di celare la causa della morte del proprio caro, fatta passare per accidentale o conseguenza di una malattia, quasi fosse un’onta, privandosi così della libertà di espressione del proprio vissuto emotivo e del diritto di ricevere solidarietà e sostegno da parte della collettività, aggiungendo sofferenza a sofferenza ed inficiando l’elaborazione e la risoluzione di questo difficile lutto. Un lutto, che ancora più di altri, influenza il modo di stare in relazione al prossimo e ne è, a sua volta, influenzato. La “volontarietà” che caratterizza il suicidio, genera in chi sopravvive, l’emergere di alcune domande, i “perché”, “se avessi, se non avessi”, (Charmet, 2009), che crea in chi rimane, una condizione di dolore travolgente. Sono tante le reazioni che ci possono essere dopo il lutto, che hanno a che fare con la dimensione emotiva, cognitiva e comportamentale, qui ne vedremo alcune. A proposito dei fenomeni cognitivi, è esperienza diffusa la tendenza a pensare intensamente alla persona che non c’è più e a come poterla riavere con sé.

Caspar David Friedrich, Due uomini davanti alla luna (1819-20)

Spesso, specie nei primi tempi, vengono riportate allucinazioni. Il sopravvissuto racconta di avere la sensazione di avvertire la presenza della persona cara, di sentire la sua voce, o di vederla nei luoghi familiari. Fa fatica a concentrarsi e si sente destabilizzato ed incredulo di ciò che è successo. Può succedere che si avverta il bisogno di isolarsi e di perdere interesse per il mondo esterno, per le attività quotidiane. Alcune persone tendono ad evitare i ricordi del defunto, per la paura di esserne sopraffatti emotivamente, con il rischio di affaticare ed in alcuni casi addirittura di impedire l’elaborazione della perdita. È possibile che affiorino comportamenti insoliti, quasi bizzarri, involontari, senza che la persona ne abbia il controllo e nei quali fa fatica a riconoscersi, perché opposti a quello che fa solitamente. Nelle prime settimane dopo la perdita è pressoché normale avere difficoltà del sonno e che l’illusione di poter stare con la persona defunta, porti a sognarla insistentemente e, nella veglia a chiamarla a voce alta. La perdita della persona cara, porta inevitabilmente con sé un’onda emotiva, che può generare affaticamento mentale e fisico, un senso di struggimento, così prevalente soprattutto nei primi tempi, insieme alla nostalgia ed alla tristezza, che si manifestano in modalità differenti a seconda della persona che li sperimenta.

Chi sopravvive, prova un senso di impotenza e la paura di non riuscire a farcela da soli e di non essere capace di stare al mondo senza il proprio caro. Spesso a seguito della notizia del decesso, ci si sente confusi, scioccati, intorpiditi e per alcuni quasi anestetizzati emotivamente, anche a distanza di diverso tempo dall’accaduto. La perdita improvvisa, è inaspettata, violenta e questo fa pensare a chi resta di non aver fatto abbastanza per impedire il decesso, generando forte rabbia verso di sé e spesso verso il defunto, per averlo lasciato solo. Un’emozione quella della rabbia, indicibile perché considerata sbagliata e poco rispettosa verso chi non c’è più e che fa sentire, chi la sperimenta inadeguato, giudicato negativamente ed in colpa. Una colpa che in alcune situazioni va a sommarsi a quella di essere sopravvissuti e che disorienta, genera vergogna, tanto da non chiedere o rifiutare l’aiuto offerto da parte di chi gli sta vicino e da sfuggire alla propria compassione. Ne consegue quello che potremmo definire un circolo vizioso fatto di vergogna, auto-stigmatizzazione, bisogno di mantenere il segreto sul suicidio ed isolamento, che amplifica la stigmatizzazione. Un lutto, quello per suicidio, che si differenzia dagli altri per intensità delle emozioni, in cui la perdita della persona cara, solitamente causa una reazione più profonda e protratta nel tempo, ma che, nella migliore delle ipotesi, con il supporto di un esperto, l’adesione a gruppi terapeutici, attingendo alle proprie risorse personali, ambientali ed al sostegno da parte delle persone vicine, può andare incontro ad una risoluzione, che porta il sopravvissuto a ricollocare la persona defunta in uno spazio nuovo e a continuare a vivere, seppur con una cicatrice nel cuore, a recuperare l’organizzazione personale della propria esistenza ed a raggiungere nuovi equilibri relazionali. Ma perché tutto ciò possa realizzarsi, è necessario legittimarsi nel chiedere aiuto, solamente così sarà possibile riprendere in mano la propria vita, nel ricordo del proprio caro.

Bibliografia

• Charmet P. G. (2009), Uccidersi. Il tentativo di suicidio in adolescenza, Raffaello Cortina editore
• Marchetti T. (2012), La famiglia di fronte alla perdita. Centro HT.
• Schutzenberger A., A., Jeufroy B. E., (2009), Uscire dal lutto: superare la propria tristezza e imparare di nuovo a vivere, Renzo Editore

Patrizia Borrelli

Sono nata a Milano, città nella quale lavoro. Mi occupo di famiglie, coppie, adulti e adolescenti. Fin da bambina sono una grande osservatrice delle persone, che alimentano la mia curiosità verso il loro modo di comunicare, di stare in relazione con l’ambiente circostante ed i propri sistemi di appartenenza, rapita e affascinata dall’originalità di ciascuno. Negli anni, ho trasformato questa mia attitudine, nel mio lavoro clinico di ascolto e supporto terapeutico. Conduco e coordino supervisioni cliniche individuali e di gruppo, secondo l’approccio Sistemico Relazionale. Curo contenuti di divulgazione scientifica a tema psicologico per L’albero della Psicologia, il mio profilo Instagram, per canali web, riviste scientifiche e sono autrice di podcast per L’albero della Psicologia Podcast, il mio canale. Una passione per la materia, che mi accompagna ogni giorno nell’incontro con i miei pazienti, con i quali proviamo a scrivere una storia diversa. Cardine del mio lavoro, è la convinzione secondo cui, gli individui abbiano dentro di sé le risorse e le capacità per superare la fase di stallo in cui si trovano e tornare ad essere attori sociali.

Il Portale L’albero della Psicologia

STORIE DI SOPRAVVIVENZA
Alessandra
e la mia vita da survivor
di Nanni Delbecchi

La mia vita di survivor comincia con uno squillo del telefono, alle 11 del mattino del 3 giugno 2018. Due ore prima, in quella immobile, afosa domenica milanese addossata al 2 giugno, avevo ricevuto un messaggio da mia moglie Alessandra, ricoverata nel reparto Psichiatria 1-Disturbi dell’umore dell’ospedale San Raffaele Turro. “Un’altra notte difficile, non venire prima delle 12”. Ma non è lei a telefonarmi. “Parlo con il marito della signora Alessandra Appiano?” “Certo, chi parla?” “Polizia”. L’agente mi dice di recarmi con urgenza presso un albergo di cui mi fornisce l’indirizzo. Gli dico che deve esserci un errore perché mia moglie è ricoverata in ospedale da 17 giorni, ma lui insiste. “Vada subito in via Stamira d’Ancona”. Lo scuorante stradone di periferia è lo stesso dell’ospedale, sperando in un errore mi precipito al San Raffaele... [continua]

STORIE DI SOPRAVVIVENZA
Una vita senza senso

Di Vito Oliva

“Quando incominciò ad albeggiare non mi importava più di niente”. Quella sensazione del Racconto di un naufrago, romanzo-memoir breve pressoché sconosciuto di Gabriel García Márquez, era la stessa che avevo provato quella mattina che Ale aveva preso il volo. Non sentire, non guardare, non annusare, non toccare, non gustare una persona amata – per giorni, per mesi, per anni, per sempre - è come perdere il senso di sé. Perdere un senso basta per perdere il senso comune che aveva cullato un’esistenza, in cui tutti i sensi erano chiari e netti al punto di poterli dilatare a piacimento. E a quel punto il tempo si dilata. Senso, sensi di colpa infiniti per non aver delibato quelle gourmandise congelate dal freezer dell’abitudine che tutto rende trasparente e insipido nell’abbuffata quotidiana. Giorno dopo giorno l’assenza cancella il senso precedente alla perdita, dilaga e sconfina in una flottiglia di pensieri senza rotta che ci privano, ora, della mappa precedente. Missionari senza missione. E nelle tenebre che accecano chi resta, l’unica ragione di vita diventa la speranza insensata che chi non c’è più abbia trovato comunque un senso a una vita che non aveva più senso.

Come se la volontà estrema di senso possa trascendere la nostra misera esistenza umana. Oppure - al contrario - una laica, laida certezza: non puoi vincere contro il banco. Se ti siedi al tavolo dell’energia dell’esistenza puoi vincere solo se sparigli, se ti diverti, se giochi, e se smetti di giocare prima di perdere tutto, magari con spocchia e orgoglio. Forse la cosa ridicola è cercare sempre lo stesso senso alle cose che accadono, perché quel senso che ci aveva accompagnato fino a quel cortocircuito era un piccolo senso, limitato, vecchio, reiterato. Un po’ come la storia che si ripete, quasi sempre uguale, facendo naufragare puntualmente sogni, desideri, ideali, certezze, credo, valori, morali. Giriamo come una trottola a quasi 30 km al secondo a testa in giù: forse per questo basta un istante di distrazione per provare un senso di vertigine sino a precipitare.

Il tempo d’altronde non esiste se non per dare un senso a un passato, a un presente, a un futuro che non esistono. Se non nei buchi neri della nostra mente e della materia. Forse basterebbe riaprire gli occhi, sturare le orecchie e porgere ascolto ai gorgoglii della nostra anima, i brontolii sordi della pancia, come una levatrice che aiuta a partorire un nuovo “sé”, una verità relativa ma piena, atomizzata e non globalizzata, sconosciuta agli algoritmi, sfuggente alle app, extracorporea e non dipendente dalla chimica o dai glu-glu o dai bla-bla. Sentire e ritrovare i nostri pensieri più impensabili e reconditi sepolti dalle sabbie mobili della perdita, della sconfitta, della fine. Anziché, come diceva Ale, nasconderli sotto al tappeto, polverizzandoli e polverizzandoci. “Non ho fatto nessuno sforzo per essere un eroe. Tutti gli sforzi che ho fatto son stati per salvarmi”. (Gabriel García Márquez)

IMMAGINI E STORIE DI SOPRAVVIVENZA
“Survivors”, il progetto di Andrea Di Biagio
Il 17 e 18 settembre 2019, in occasione della giornata mondiale per la prevenzione del suicidio, il fotografo Andrea Di Biagio ha esposto il progetto “Survivors” nell'aula magna dell'università della sapienza a Roma. Un modo diretto, intenso e poetico, per mostrare qualcosa su cui la società troppo spesso chiude prima gli occhi, e poi il cuore. Molte delle immagini sono presenti singolarmente in questo sito; qui è possibile sfogliare il progetto nel suo insieme (chi fosse interessato a mettersi in contatto con Andrea può farlo anche attraverso di noi).

Perché hai voluto dedicare di tua spontanea volontà un reportage fotografico a coloro che hanno perso un caro per gesto estremo, i cosiddetti ‘survivors’?
Ho cominciato a pensarci molto tempo fa, quando ho conosciuto persone toccate dal trauma del suicidio e mi sono reso conto che del loro dolore si parlava pochissimo. Poi, per realizzare materialmente il progetto, ho impiegato due anni.

Come è nata l’idea di una narrazione in tre tempi, scandita tra passato, presente e futuro?
Raccontare l’assenza è difficilissimo, così ho scelto la via più semplice. Non amo la fotografia didascalica e concettuale, in questo caso ho voluto rimanere più che mai realista. In pratica, ho chiesto ai survivor di farmi vedere un oggetto che li legava al loro caro, e questo oggetto è diventato l’anello di congiunzione tra chi se ne è andato e chi rimane a ricordare. Tre fotografie, ognuna complice dell'altra, per raccontare una storia.

Come hai individuato i survivors, e qual è stata la loro reazione?
Attraverso il servizio di prevenzione del suicidio diretto dal professor Maurizio Pompili, ho potuto contattare i survivor. Quando li ho incontrati ognuno ha reagito diversamente, ma in tutti ho visto la voglia di far uscire allo scoperto il loro dolore, il loro stigma.

Cosa ti è rimasto di questa esperienza?
La speranza di aver fatto qualcosa di utile per prevenire il suicidio. E poi, dall’incontro con i survivors ho avuto una conferma di quello che già sapevo, sintetizzato nel pensiero di un uomo a me molto caro: "Anche la disperazione impone dei doveri, e l'infelicità può essere preziosa." [immagini e storie di sopravivenza]

Bibliografia ragionata

Lo scaffale

I libri amati da Alessandra, i libri che sondano il mistero doloroso della depressione, i libri che affrontano “il solo problema filosofico veramente serio: quello del suicidio” (Albert Camus). In ogni stanza del sito c'è posto per una serie di consigli di lettura coerenti ai temi trattati. Chiunque ha facoltà di proporre e motivare i propri titoli.

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Lo scaffale - 1 contributo
  • Sarah
    Giovedì 26 novembre 2020

    Il salto (Sarah Manguso, NN Editore 2017, traduzione Gioia Guerzoni) è il memoir di una ricerca, quello di Sarah Manguso: del motivo per cui il suo amico Harris si è tolto la vita, e di una consolazione al dolore. “Harris […] aveva camminato per dieci ore prima di gettarsi di fronte al bagliore sui binari. Non importa se mi aveva pensato, se avrebbe voluto chiamarmi, se gli ero mancata, se era arrabbiato con me, ma è impossibile non cercare di entrare nella scatola nera di una mente [...] Leggi tutto......abbandonata a se stessa. Deve avere una sua bellezza, la fine. Lasciare che il vento ti soffi in faccia quando il treno entra sfrecciando in stazione. Immaginare che la tua vita ti venga incontro come un’onda. Cerco di credere che Harris abbia chiamato a raccolta tutta la bellezza della sua vita. Mi consola pensare che l’energia apparentemente perduta si è solo spostata altrove, è stata restituita al sistema del mondo. […] A cosa serve il dolore? Spiegazione meccanica: il dolore sposta la mia attenzione su una ferita o un trauma e si placa quando la ferita viene medicata o il trauma risolto. Il dolore della perdita si attenua se sostituisco quello che ho perso o mi adatto ad accettare la perdita per sempre. Spiegazione evolutiva: il dolore è un sottoprodotto dell’attaccamento negli animali sociali. Il dolore della perdita mi insegna a prevenire la potenziale perdita di un familiare. Spiegazione religiosa: Dio, creatore di tutto, sa. La vita è soltanto una sfida, ben presto vivrò di nuovo in paradiso. Spiegazione reale: l’amore rimane. Non c’è altro conforto.”

    Sarah Manguso, Il salto, NN Editore

L’anno del pensiero magico
ALLA RICERCA DELLA VITA PERDUTA

“La vita cambia in fretta. La vita cambia in un istante. Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita.” Joan Didion racconta la perdita improvvisa, istantanea del marito John, e da lì nasce l’istinto di risalire la corrente dei ricordi inseparabili, degli anni trascorsi in simbiosi, ma anche l’istinto di intercettare i segni che qualcosa sopravvive alla perdita, la prova che tra passato e futuro non c’è un muro invalicabile. L’anno del pensiero magico è quello in cui la vita pare parlarci al di là della ragione, e il cuore è in ascolto. Ma poi? Quando la vita cambia, osserva Joan Didion in questa autobiografia del dolore, anche a noi tocca la stessa sorte.

• Joan Didion, L’anno del pensiero magico, Il Saggiatore
Più lontano ancora
LE CENERI DI DAVID

Jonathan Franzen parte per uno sperduto isolotto a largo delle coste cilene; in quei giorni di scoperta della natura selvaggia e assoluta solitudine ha con sé una copia di Robinson Crusoe e una manciata delle ceneri dell’amico fraterno David Foster Wallace, che la vedova di David gli ha chiesto di disperdere nell’oceano. Interrogandosi a lungo sulle ragioni del suicidio del suo gemello diverso, Franzen oscilla tra la rabbia, il rimpianto, il dolore e perfino l’invidia. A un tratto è colto da un’illuminazione. Il suo interesse per l’osservazione degli uccelli rari è la ragione che lo protegge dall’idea della morte, David invece non aveva nulla di simile nella sua vita, nulla che lo interessasse a parte il proprio lavoro di scrittore. E qui si tocca un punto nodale della sindrome depressiva nelle personalità artistiche: l’incapacità di uscire da sé, l’essere tutt’uno con la propria ossessione.

• Jonathan Franzen, Più lontano ancora, Einaudi
Piccoli suicidi tra amici
LIBERA ASSOCIAZIONE MORITURI ANONIMI

Se proprio siete determinati a farlo, se non vedete alternative possibili alla vostra fine, bene, concedetevi ancora un paio d’ore e date un’occhiata a “Piccoli suicidi tra amici” di Arto Paasilinna, ex guardiaboschi, ex giornalista, ex poeta, che apre il suo libro con una serissima dedica proverbio: “In questa vita la cosa più seria è la morte; ma neanche quella più di tanto”. Parola di uno scrittore finnico che vi farà schiantare dalla sua serissima leggerezza: “Il più formidabile nemico dei finlandesi è la malinconia, l’introversione, una sconfinata apatia. Il peso dell’afflizione è tale da indurre parecchi finlandesi a vedere nella morte l’unico sollievo. La malinconia è un avversario più spietato dell’Unione Sovietica”. E allora, perché no, non costituire anche noi la Libera Associazione Morituri Anonimi e partire a bordo del lussuoso pullman Saetta della Morte per un viaggio da un capo all’altro dell’Europa alla ricerca del migliore strapiombo da cui lanciarsi nel vuoto?

• Arto Paasilinna, Piccoli suicidi tra amici, Iperborea (segnalato da Vito)
Il weekend
UN SASSO DA PORTARE OVUNQUE

Imparare a camminare, da bambini, è compiere un’impresa gigante; ed è qualcosa che siamo convinti non dimenticheremo mai più, un po’ come si dice dell’andare in bicicletta. Invece, ciò che non sappiamo è che dovremo imparare ancora tante, tante volte a camminare (che, per dirla con Marcela Serrano, è un verbo che presuppone movimento): imparare a camminare con una perdita. Nel suo romanzo da me più amato, Peter Cameron lo espone in modo icastico, terragno e toccante: "Ci sono cose che si perdono e non tornano indietro; non si possono riavere mai più, se non nella carta carbone della memoria. Ci sono cose a cui sembra impossibile rassegnarsi ma a cui rassegnarsi è inevitabile. Lo scorrere dei giorni leviga il dolore ma non lo consuma: quello che il tempo si porta via è andato, e poi si resta con un qualcosa di freddo e duro, un souvenir che non si perde mai. Un piccolo bassotto di porcellana delle White Mountains. Una marionetta del teatro delle ombre di Bali. E guarda: un calzascarpe d'avorio di un hotel a quattro stelle di Zurigo. E qua, come un sasso che porto ovunque, c'è un pezzetto di cuore altrui che ho conservato da un vecchio viaggio”.

• Peter Cameron, Il weekend, Adelphi 2013, traduzione di Giuseppina Oneto. (segnalato da Sarah)
La prevenzione del suicidio
PREVENIRE L’IMPREVEDIBILE

“Il suicidio è un atto conscio di auto-annientamento, meglio definibile come uno stato di malessere generalizzato in un individuo bisognoso che, alle prese con un problema, considera il suicidio come la migliore soluzione”. Questa definizione di Edwin Shneidman è il punto di partenza del saggio di Maurizio Pompili, medico psichiatra, tra i più eminenti suicidologi al mondo: “Coloro che pensano al suicidio (o che tragicamente si suicidano) vogliono vivere, ma dopo un lungo meditare sono giunti alla conclusione che la loro sofferenza, per diverse ragioni. non possa avere fine.” Perché? Pompili offre un’analisi del suicidio quale fenomeno complesso, che va compreso alla luce di fattori biopsicosociali, ambientali e socioculturali non prevedibile nemmeno da chi lo compie, per cui la valutazione degli individui “a rischio” deve poter basarsi su quante più informazioni possibili: “Gli individui che hanno intenzione di suicidarsi vogliono assolutamente essere salvati ma il desiderio di vivere e quello di morire sono in equilibrio precario.” L’ultima parte del libro è dedicata ai survivors che hanno perso un loro caro per suicidio, la più grande comunità di vittime nell’area della salute mentale. La ricerca del perché è un processo lungo, precisa Pompili, il tempo da solo non è sufficiente all’elaborazione della perdita, è fondamentale poter contare su professionisti capaci di interagire con il survivor. Sulle orme di Shneidman, il saggio include un elenco degli otto passi decisivi nella postvention, e sottolinea l’importanza di programmi specifici anche per i survivors.

• Maurizio Pompili, La prevenzione del suicidio, il Mulino, 2020 (segnalato da Valeria Camia)