Alla metà degli anni 70, in contrasto all’antipsichiatria secondo cui bisogna aprire i reparti ospedalieri e demedicalizzare la malattia mentale, il professor Giovanni Battista Cassano va controcorrente, e fonda il Centro per la prevenzione e la terapia della depressione presso la Clinica psichiatrica dell’Università di Pisa. Per decenni il Centro è stato l’approdo di pazienti provenienti da tutte le parti d’Italia, gravi depressi che non erano riusciti a capire come combattere questa malattia, dove una specifica diagnosi del tipo di disturbo e la capacità di non abbandonare a se stessi il malato e la sua famiglia sono la chiave di volta. Il “metodo Cassano” è stato criticato perché troppo legato a una visione biologico-genetica, per la centralità della terapia farmacologica e per il regime rigoroso di ricovero, quando ritenuto necessario. Ma come Cassano ha spesso ribadito, l’errore prospettico consiste nel considerare contrapposti la terapia di parola e quella farmacologica, che invece devono essere integrate. Non si cura la mente se non si cura il cervello, e viceversa, perché ogni depressione fa storia a sé. Inoltre, nei rari casi in cui si rende necessario, il ricovero deve garantire un forte regime di sorveglianza e un rigido protocollo anti suicidio, tanto più necessario quanto è centrale la terapia farmacologica, sebbene questo non sempre si applichi nei reparti delle strutture pubbliche cosiddette “aperte”.
Si ritiene che il 15-20 per cento di quanti soffrono di depressione bipolare sia candidato al suicidio. Ma ancora il suicidio non potrebbe avverarsi se i fondamentali istinti di vita non fossero compromessi. E invece l’istinto di conservazione viene meno, la spinta verso la vita si estingue, il legame con gli affetti si dissolve. La depressione è una malattia che annulla la volontà.
Giovanni Battista Cassano